L’Angel, quinta parte. Non è detto nemmeno che sia l’ultima, ma di certo è la più lirica. Non tanto la narratività larga dell’Angel uno e due (già più rada nella parti successive, sparsamente offerte) ma piuttosto l’evocatività allusiva (spesso lunare) di una memoria commossa da una brezza di vento. Pur non mancando di un registro di ironia, arioso, basso e persino beffardo (dominio emblematico, ad esempio, dei due componimenti iniziale e finale), le parole diventano piuttosto coaguli di sogni, grumi d’incanto. Come sempre i luoghi, i toponimi di una nostalgia robusta, le voci d’osteria, i personaggi (gli amici, le donne amate, quelle sfiorate, quelle perdute), i cinemini, i bombardamenti, i giochi, i magnifici “impromptus”. Ma tutto diventa fiato e respiro, trasparenza e riflesso, il soffio di un impossibile: “Cume se fa a dì de quèl che l’ànema/ la streng nel film nascost del memurià” (Come si fa a dire quel che l’anima stringe nel film nascosto del ricordare). Tra pensiero e sentimento, tra carne e anima, tra silenzio e parola, tra ombra e luce, tra io e noi, tra muro e aria, si gioca l’accanita e fuggitiva meraviglia della vita, la sensuale dolcezza degli idilli che ne evocano il mistero (“il quibus”): “streng nel fiâ de carna el sentiment” (stringere nel fiato di carne il sentimento). A vincere è il canto, è lo stupore frequentemente interiettivo in cui si rivelano la significatività e la leggerezza (l’anima) del mondo, del suo fondo. C’è, sì, la rugosità della sofferenza, del dolore, lo scoglio della morte che offende, della paura che ci contamina. Ma c’è ad un tempo la vittoriosa presenza di Dio, di un Dio in cui l’interrogazione del poeta versa tutto il senso di una speranza imprescindibile. L’alterità angelica che si converte nel domicilio di una voce umile e accogliente (magari una “tuss”, la tosse della Bissa scudelera, “la bava che vègn föra dal biassà”, la bava che vien fuori dal suo biascicare): dono – sì – della lingua milanese che l’incide, ma soprattutto di quel soffio di poesia – anche del suo “amar”, amaro – che da sempre “ditta dentro”, accarezzando la bellezza di un “imperdonabile” destino. Con questa quinta parte de L’Angel, Franco Loi si conferma come uno dei nostri poeti maggiori.
(g.t.)
- 978-88-8419-490-9
- 2011
- €10.00
Franco Loi è nato a Genova nel 1930, da una famiglia sarda. Vive a Milano dal 1937, adottandone il dialetto. È stato un importante critico letterario per «Il sole 24 ore» dalla fine degli anni ’80, incoraggiando l’uso poetico dialettale. Il suo linguaggio poetico nasce dalla mescolanza di elementi linguistici di varia natura: gerghi, idioletti ecc., di area proletaria e contadina, spesso reinventati dalle esigenze espressive dell’autore. Dopo le raccolte I cart (1973) pubblicato su rivista, e Poesie d'amore (1974), si è affermato soprattutto con la raccolta Stròlegh (1975). Sono seguite: Teater (1978), L’Angel (1981). Le sue poesie sono state tradotte in molti Paesi d’Europa e negli Stati Uniti. Ha curato con Davide Rondoni un’antologia della poesia italiana dal 1970 ad oggi (2001).